Lo Hobbit: la storia di Bilbo Baggins e dell’Unico Anello

Lo Hobbit: la storia di Bilbo Baggins e dell’Unico Anello
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Era il 2012quando Peter Jackson ci riportava nella Terra di Mezzo con la trilogia de Lo Hobbit, per raccontarci le gesta di Bilbo Baggins e di come tutto ebbe inizio. A quasi dieci anni dalla conclusione della trilogia de Il Signore degli Anelli, il regista premio Oscar torna a narrare il mondo creato da J.R.R. Tolkien e lo fa narrando la storia di uno scassinatore e dell’avventura che lo porterà a lasciare la sua amata Contea e lo farà entrare in possesso di un piccolo ma prezioso Anello. Jackson ci porterà a conoscere gli avvenimenti avvenuti 60 anni prima della storia di Frodo e del suo viaggio verso Monte Fato. Una trilogia che ci porterà a conoscere il tragico destino del popolo di Durin, del drago Smaug e di un’epica battaglia alle pendici della Montagna Solitaria.

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato

una scena de Lo Hobbit

Quando il mago Gandalf il Grigio (Ian MacKellen) piomba nella sua pacifica vita Bilbo Baggins (Martin Freeman), neanche immagina di come questa stia per cambiare radicalmente. Il giovane Hobbit si ritrova in compagnia di tredici nani guidati dal leggendario guerriero Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage), alla conquista del perduto Regno dei Nani di Erebor, ora nelle mani del terribile drago Smau. Un viaggio che li condurrà nelle Terre Selvagge, attraverso territori pieni di goblin, orchi, feroci warg e un sinistro Negromante.

Per raggiungere la propria meta che si trova ad oriente, nelle terre desolate della Montagna Solitaria, la compagnia dovrà superare non poche difficoltà Tra queste le caverne di goblin, dove Bilbo incontrerà la creatura che cambierà per sempre la sua vita: Gollum (Andy Serkis). Solo con Gollum sulle rive di un lago sotterraneo l’Hobbit farà ricorso a tutta la sua astuzia e al suo coraggio, sorprendendo persino sé stesso, per poter tornare in superficie. Inoltre entrerà in possesso del tesoro di Gollum, un anello d’oro dalle qualità magiche. Bilbo neanche sospetta che da un semplice anello d’oro dipenda il destino della Terra di Mezzo.

L’inizio di un’avventura

La prima parte del film scorre lenta (un pò troppo) e tranquilla, come la vita degli Hobbit, per poi prendere sempre ritmo con l’inizio del viaggio, che porterà Bilbo, Gandalf ed i Nani in marcia verso la riconquista della Montagna Solitaria. Viaggio che si arena quando il gruppo guidato da Thòrin giunge a Gran Burrone, dove per creare maggiore richiamo alla trilogia de Il Signori degli Anelli viene inserito un consiglio tra Gandalf, Elrond, Saruman e Galadriel. Da questo momento in poi il ritmo del film è in crescendo. Scena spartiacque de Lo Hobbit è lo scontro tra i giganti di pietra, in cui grazie alla sapiente regia di Jackson e ad una straordinaria computer grafica piovono rocce sullo spettatore e la magia di Tolkien inizia a prendere vita. Da qui è un continuo susseguirsi di emozioni.

Superati i giganti la compagnia si ritrova nei tunnel dei Goblin, momento cruciale dell’intero mondo fantasy creato dallo scrittore poiché oltre al credibile ed epico scontro che avverrà, Bilbo incontrerà il suo destino, ovvero Gollum. L’incontro tra i due è cupo, teso ed ipnotico, (quasi) un duello western dove si fronteggiano un Bilbo impaurito ma fiducioso ed un Gollum più selvaggio, spietato e dalla doppia personalità più accentuata di quello de Il Signore degli Anelli e molto credibile a livello grafico. E sarà qui che il giovane Hobbit entrerà in possesso dell’anello che darà il via al viaggio di Frodo Baggings e de La compagnia dell’Anello. Ormai convinti che l’azione sia finita c’è tempo per l’ultimo scontro della pellicola, un faccia a faccia cruento e dalle tinte cupe tra i Nani e Orchi in groppa a famelici Lupi Mannari.

Una compagnia di tutto rispetto

Lo Hobbit

Per quanto Peter Jackson firmi un’ottima regia, ancora una volta capace di portare lo spettatore nel cuore della vicenda, gli effetti speciali e visivi da Oscar, la bellissima fotografia, la scenografia sempre più reale, i costumi, un 3D avvolgente e la solida sceneggiatura abbiamo contribuito alla riuscita del film, il vero punto di forza di Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato risiede senza dubbio negli attori, tutti in parte. Martin Freeman è un Bilbo Baggins straordinario. Impacciato, impaurito ma coraggioso e furbo al momento giusto. Ian McKellen è un Gandalf saggio e scaltro, ben doppiato da Gigi Proietti, Richard Armitage è un Thòrin fiero ed orgoglioso ed Andy Serkis riesce a regalarci un Gollum dalla doppia personalità ancora più inquietante, ipnotico.

Sicuramente replicare ciò che è stato fatto un decennio fa con Il Signore degli Anelli era un’impresa impossibile anche per Peter Jackson, sopratutto alla luce del diverso stile e linguaggio dei libri di Tolkien, essendo Lo Hobbit rivolto ad un pubblico più adolescenziale, e l’impresa sarebbe riuscita meglio se il regista non avesse girato in 48 fotogrammi al secondo. Perché l’innovazione usata dal regista ha una velocità praticamente televisiva (la tv ha una velocità di 50 fps) che male si sposa con lo schermo cinematografico, la cui unica funzione è di far apparire i movimenti degli attori e di macchina velocizzati (fortunatamente solo per i primi minuti) e rende i paesaggi troppo naturali per un fantasy. Nonostante ciò Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato è film da non perdere.

Lo Hobbit – La desolazione di Smaug

Un breve incipit, con tanto di cameo di Peter Jackson, in cui veniamo a conoscenza di come Thorin decida di partire per riconquistare il Regno di Erebor. La narrazione poi riprende da dove si era interrotto il primo capitolo. La Compagnia, che è ancora inseguita dagli orchi, continua il suo viaggio verso Est. Dopo aver incontrato il mutaforma Beorn (Mikael Persbrandt), che offrirà loro rifugio ed aiuto per il proseguimento del viaggio, la compagnia si imbatterà in un nido di ragni giganti nella Foresta di Bosco Atro, per poi essere catturati dagli Elfi che la pattugliano. Dopo essere fuggiti alla cattura la Compagnia, priva di Gandalf che l’ha lasciata per capire chi sia il misterioso Negromante, grazie all’aiuto di Bard (Luke Evans) arriva a Pontelagolungo, e da qui finalmente all’interno della Montagna Solitaria dove affronterà il terribile Drago Smaug (Benedict Cumberbatch).

Verso la Montagna Solitaria

Evangeline Lilly in Lo Hobbit

A differenza del primo capitolo che aveva una narrazione lenta nella prima parte per poi entrare nel vivo dell’azione nella seconda, in Lo Hobbit – La desolazione di Smaug entriamo da subito nel vivo dell’azione, a partire dal breve prologo pieno di tensione e mistero. Sin dai primi minuti infatti lo spettatore viene catapultato nel frenetico e pericoloso viaggio della compagnia, un viaggio che non lascia loro praticamente un attimo di tregua costringendoli a continue battaglie o fughe dai pericoli che incombono su di loro. Una storia che si sviluppa su due piani narrativi attingendo ad altri scritti di Tolkien, e che oltre a collegare Lo Hobbit a Il signore degli Anelli ha lo scopo di aggiungere ancora più azione e suspense alla storia.

Come in Un viaggio inaspettato il momento cruciale del film vedrà protagonista – e non poteva essere altrimenti – ancora una volta Bilbo Baggins. L’incontro tra l’hobbit e il Drago Smaug (menzione d’onore a Luca Ward che riesce a non far rimpiangere la voce di Benedict Cumberbatch) rasenta ancora una volta il tipico duello dei western. Ma se l’incontro/scontro con il selvaggio ed imprevedibile Gollum era cupo ed ipnotico e vedeva un Bilbo impaurito dover ricorrere a tutto il suo coraggio, il duello con Smaug è più a viso aperto e quasi senza timore. Perché nonostante Bilbo sia intimidito dall’enorme creatura, non solo è più consapevole del proprio coraggio, ma anche di avere di fronte un essere senziente ed intelligente, quindi più facile da interpretare. Un duello d’astuzia e retorica contro un drago sin troppo impaziente di sterminare i nani e che cercherà di portare a termine la sua missione.

Conferme e personaggi inutili

Anche in La desolazione di Smaug ciò che convince sono gli attori. Ian McKellen è un Gandalf sempre più preoccupato, Richard Armitage è un Thorin ancora una volta fiero ed orgoglioso, Lee Pace è un misterioso ed altezzoso Re Thranduil e Orlando Bloom torna nei panni del mitico Legolas, borioso come ne La Compagnia dell’Anello. Ma è Martin Freeman il vero punto di forza, l’attore è nato per essere Bilbo Baggins. Con le sole espressioni facciali riesce a restituirci il crescente coraggio di un timoroso hobbit e l’influenza sempre maggiore che l’anello esercita su di lui. Impeccabile. Deludono invece Luke Evans e la bella Evangeline Lilly. Il primo è spaesato nei panni di Bard, non riuscendo a dare al personaggio la credibilità di cui il personaggio necessita.

Mentre la Lilly interpreta un personaggio poco credibile, spesso privo di senso e che non si amalgama bene con il resto della storia. Si nota fin troppo che il personaggio è stato creato al solo scopo di “allungare il brodo” per poter creare la trilogia. Purtroppo ogni volta che il racconto indugia su Tauriel, la storia non solo rallenta il ritmo ma vira verso scene avulse dal resto del contesto. Il personaggio della Lilly è protagonista di scene la cui unica utilità è quella di giustificare un personaggio altrimenti inutile; a tratti involontariamente comico e con un’aura da far invidia alla Madonna. Irritante.

Un film di passaggio

Ancora una volta la regia di Peter Jackson riesce a portare lo spettatore nel pieno della vicenda, grazie alla frenesia del racconto e ad una computer grafica strepitosa. Il regista riesce a farci dimenticare in parte i difetti di una sceneggiatura a volte frettolosa e che regala un paio di scene al limite del ridicolo. Effetti speciali che ci donano un Bosco Atro tenebroso e malato – sintomo del male che sta risorgendo – infestato da orribili ragni, il mutapelle Beorn e uno Smaug col quale raggiunge il suo apice. Enorme drago dagli occhi vispi e crudeli, ricoperto di scaglie impenetrabili e dotato di una velocità ed agilità sorprendenti. Delizia per gli occhi di chi guarda.

Oltre al personaggio inventato di Tauriel e alle differenze con il libro – che faranno storcere il naso ai fan più integerrimi – troviamo personaggi e situazioni non approfondite quanto avrebbero dovuto e un HFR a 48 pollici che, come avvenuto con il capitolo precedente, ha l’unico “merito” di rendere i paesaggi sin troppo veri; ciò che lascia spiazzati negativamente è il finale del film che (s)tronca di netto troppo frettolosamente il lungo scontro tra i nani e Smaug. Il secondo capitolo della trilogia sente in pieno il suo essere un film di passaggio e la scelta produttiva di fare del romanzo una trilogia, ma in ogni caso è un film da vedere, se non altro per tornare nella Terra di Mezzo ed ammirare un fantastico drago.

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Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate

La pellicola, come il precedente capitolo La desolazione di Smaug, riprende da dove si era interrotta l’anno precedente. Dopo una dura battaglia la compagnia dei nani guidata da Thorin Scudodiquercia riesce a cacciare dalla Montagna Solitaria il drago Smaug, il quale riverserà tutta la sua collera sugli abitanti di Pontelagolungo, rei di aver aiutato la compagnia. La compagnia si sta pian piano sfaldando a causa dell’ossessione di Thorin per il tesoro, che lo porterà a dimenticare amicizia e onore.

Nel frattempo sotto la Montagna si radunano gli eserciti degli uomini di Pontelagolungo e degli Elfi Silvani, i quali reclamano una parte dell’immenso tesoro. Inoltre un ingente esercito di Orchi guidati da Azog il profanatore è pronto a scatenare una sanguinosa guerra contro Nani, Elfi e Uomini, i quali saranno costretti a mettere da parte le loro divergenze e unirsi contro un nemico comune.

Come in un videogame

Lo Hobbit

Formula vincente non si cambia, così anche per La Battaglia delle Cinque Armate si ha un inizio adrenalinico, ad alta tensione e pieno di action. I primi venti/trenta minuti di questo ultimo capitolo de Lo Hobbit sono eccezionali. Peter Jackson dà il meglio di sé mostrandoci, sia da vicino che da lontano, tutta la furia del drago Smaug contro gli inermi abitanti di Pontelagolungo. Assistiamo così alla distruzione della città e alla disperazione dei suoi abitanti prima e al duello in stile western, il primo di molti presenti nel film, tra l’arciere Bard e Smaug. Un incipit in cui lo spettatore non rimarrà deluso e dove lo stile di regia di Jackson è ben riconoscibile.

Ma la bellezza del film si esaurisce praticamente qui, perché da questo momento in poi il film sarà una delusione (quasi) totale, ad eccezione della ciclica conclusione che si ricollegherà alla trilogia de Il Signore degli Anelli.

I problemi del film non risiedono nel fatto che la vicenda narrata nel libro si esaurisce praticamente con il duello tra Bard e Smaug e il ritorno di Bilbo nella Contea, che il restante è la trasposizione sul grande schermo delle appendici del Silmarillion, della Trilogia dell’Anello e di invenzioni di Peter Jackson, ma si hanno proprio nella sceneggiatura e nell’aspetto tecnico.

Per quanto riguarda quest’ultimo sin dal primo capitolo era evidente l’effetto iperrealistico dei 48 fps che mal si sposano con la narrazione fantasy, rendendo i paesaggi fin troppo simili a quelli di un videogioco. Se nei capitoli precedenti l’effetto straniante era sopportabile, in questo capitolo tale limite viene valicato per quasi tutta la durata del film, rendendo il green screen onnipresente. Il film è praticamente una fiera della computer grafica e di scene rallenty al tramonto che conferiscono un’aura fin troppo romantica ai personaggi.

Amore e altri disastri

Per quanto riguarda la sceneggiatura il problema principale è rappresentato dal personaggio di Tauriel, non tanto perché inesistente nel romanzo e creato appositamente per il film, ma perché mal inserito all’interno della vicenda. Se in La desolazione di Smaug era più che evidente l’inutilità del personaggio, in questo terzo e ultimo capitolo della saga l’inutilità del personaggio – se possibile – raggiunge livelli epici.

Non solo risulta ancora più avulso dalla storia, rallentandone la narrazione, ma è anche protagonista di una sottotrama romantica che stona con l’intero impianto del film. Una storia degna dei peggiori film sentimentali con dialoghi e situazioni al limite dell’assurdo che ridicolizzano la rappresentazione tolkeniana dell’amore romantico, uno dei temi principali dell’autore inglese. Odiosa. Per non parlare delle scene che vedono protagonista un irritante Legolas in versione videogioco e al centro di momenti involontariamente comici – come i confronti/scontri/riunioni familiari con Thranduil o la lotta con Bolg -, nonché friendzonato a più riprese dall’inutile Tauriel. Oltre al danno la beffa.

Mentre nella trilogia de Il Signore degli Anelli si percepiva che Peter Jackson era riuscito a trasportare sul grande schermo l’epicità della Terra di Mezzo descritta da Tolkien, grazie al suo inconfondibile stile conciso, asciutto e immediato, ma dove era ben riconoscibile una forte autorialità registica, in questo terzo capitolo de Lo Hobbit si è perso tutto ciò. Della vicenda portata sullo schermo non ritroviamo nulla dello spirito tolkeniano, se non nella prima mezz’ora e nella conclusione che ci (ri)conduce e (ri)collega con la trilogia dell’anello chiudendo un cerchio aperto tredici anni fa.

Battaglie epiche

Lo Hobbit

Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate è un film che si mantiene a stento a galla solo grazie alle lunghe (forse troppo) scena di guerra. Un’epica battaglia sotto la Montagna che i vari personaggi combattono non solo per la propria sopravvivenza ma in particolare per quella della Terra di Mezzo. Battaglie molto ben coreografate e avvincenti, e alle grandi interpretazioni di Martin Freeman, il quale nei tre film è riuscito a portare sullo schermo in maniera impeccabile la crescita e il cambiamento di Bilbo Baggins, e Richard Armitage, in grado di rappresentare al meglio tutta la testardaggine del re dei nani e la sua follia causata dalla “malattia del drago”, anche se rappresentata in maniera troppo onirica.

Per quanto riguarda il resto del cast, a parte un sempre ottimo Ian McKellen, non delude la compagnia dei Nani, i quali riescono a mostrare tutta la loro testardaggine, e un altezzoso Lee Pace. Sempre spaesato Luke Evans, mentre il Bianco Consiglio è sfruttato poco e male. Peccato. Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate porta a conclusione una trilogia dai molti difetti che lascerà l’amaro in bocca. Un ritorno nella Terra di Mezzo che avrebbe potuto essere ben più dolce ed emozionante. Un film in ogni caso da vedere se non altro per ammirare un’ultima volta Smaug.

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Emanuele Bianchi

Appassionato di cinema, fotografia, teatro e musica sin da piccolo decide di farne il suo lavoro. Miyazakiano convinto, tanto da incentrare la sua tesi sul suo cinema, e divoratore di anime tanto da volere Eikichi Onizuka come professore al liceo, è uno Jedi come suo padre prima di lui e “nato pronto” e sì, anche un inguaribile nerd (pollice verso per coloro che non colgono le citazioni). Laureato in cinema presso il DAMS di Roma 3 e diplomato in fotografia presso il CST, negli anni ho collaborato con varie testate web di cinema. Giornalista pubblicista iscritto all'albo. Sempre in movimento, perennemente in ritardo. Co-Fondatore di PopCorn Society.

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