Big Fish: la forza magica del racconto nel gioiello di Tim Burton

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Da sempre Edward Bloom affascina chi lo ascolta con le incredibili storie sul suo passato. Eppure c’è chi, crescendo, da queste storie ha smesso di essere incantato: suo figlio Will, che da anni non parla col padre. A quest’ultimo Will ha infatti sempre rimproverato il suo rifugiarsi in un mondo di fantasia, in cui la realtà viene distorta dal modo originale di Edward di ricordare le sue storie, col risultato di aver lasciato al figlio l’impressione di non aver mai davvero capito chi sia il genitore. Quando però l’anziano Edward si ammala, Will decide di far ritorno a casa per salutarlo un’ultima volta e cercare di districarne il mistero.

Fantasia al potere

Ewan McGregor in Big Fish

A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale”. È in questa riflessione che viene probabilmente colta l’essenza di Edward Bloom (interpretato da Ewan McGregor da giovane e Albert Finney da anziano), protagonista di Big Fish – Le storie di una vita incredibile, capolavoro di Tim Burton datato 2003, che il regista statunitense accettò di girare a seguito dell’afflizione per la morte del padre prima e della madre poi. È infatti la vita di Edward che ci viene narrata da Burton attraverso le parole e il punto di vista dello stesso protagonista, per quella che risulta una sorta di meta-narrazione. Una storia vera solo a metà, con al centro un uomo quasi sfuggente e che si potrebbe banalmente definire bugiardo, eppure al tempo stesso una storia stupefacente e divertente, surrealmente fuori dell’ordinario.

Su sceneggiatura di John August, adattamento dell’omonimo romanzo di Daniel Wallace, Burton ci regala una delle sue pellicole migliori, un vero gioiello poetico e commovente, senza nemmeno aver bisogno di ricorrere all’attore feticcio Johnny Depp o al suo immaginario gotico dark.

Anzi, sono la radiosità del sorriso di Ewan McGregor e la luce magica della fantasia che permea il film a far splendere di confortevole bellezza Big Fish, che parte dal presente più cupo della malattia di Edward per ripercorrere in simil-flashback tappe e fatti fondamentali della vita dell’uomo, in una sorta di fiaba-racconto in diversi capitoli.

Ecco allora che, storyteller nel più profondo della sua giocosa anima, Edward Bloom rievoca una vita straordinaria in cui i giganti sono alti 5 metri o si può prevedere la propria morte nell’occhio di vetro di una strega (Helena Bonham Carter), in cui esistono strambe città segrete dove le scarpe non vengono indossate ma appese a un filo, in cui i circhi sono amministrati da uomini lupo (Danny DeVito) o il tempo si ferma – letteralmente – quando si incontra l’amore della propria vita (Alison Lohman prima e Jessica Lange poi), salvo poi tornare a scorrere al doppio della velocità.

La bellezza del ricordo

Ewan McGregor e Alison Lohman in Big Fish

Big Fish è una grande riflessione sul potere del racconto, fatto di parole in libertà e immaginazione, in cui ha più importanza la bellezza del ricordo che il ricordo in sé. Motivo per cui Edward si dà a licenze poetiche nell’esporre i suoi, dipingendo in tal modo un arcobaleno laddove i colori della vita sono invece neutri.

Nel suo tentativo di conoscere meglio il padre e ostinato nel voler perseguire a tutti i costi la “verità”, Will (Billy Crudup) scoprirà dunque come tutto non sia o bianco o nero, sincero o falso, reale o fantastico, ma come l’esistenza scorra piuttosto in un percorso intermedio in cui gli opposti si fondono armonicamente, e anche i racconti di Edward hanno un insospettabile fondo di verità. Diventa di conseguenza anche impossibile separare “l’uomo dal mito”, da accettare – nel bene e nel male – nella sua peculiarità caratteriale.

Sulle note del sempre fidato collaboratore di Burton Danny Elfman, Big Fish emoziona e diverte facendo leva sullo stupore dato dal fantastico che fluisce dai racconti rivisitati di Edward, materia fertile per Tim Burton che può in questo modo scatenare la sua visionarietà per modellare cinematograficamente i racconti esagerati del protagonista, senza tuttavia poi tralasciare una dolente riflessione su quel particolare amore e dolore che caratterizza i rapporti padre-figlio.

A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie”, dicevamo. E questo è proprio quanto accade a Edward Bloom. Tutto inizia con un grosso pesce che abbocca all’amo di Edward attirato da una fede d’oro, e con un salto di immaginazione e di amore figliale è proprio in quel pesce – sempre stato più grande e furbo degli altri – che l’uomo infine si trasforma, per nuotare via lontano e felice, alla ricerca di nuove fantastiche avventure.

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Giorgia Lo Iacono

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